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Polyphonic Spree

Ultimo Aggiornamento: 09/09/2007 15:28
09/09/2007 15:28
 
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Quando ho letto la alquanto impietosa recensione dell'in-ignorabile Pitchfork del nuovo album dei Polyphonic Spree, The Fragile Army, ho pensato che fosse piuttosto pretestuosa, ma anche centrata. Da ascoltatori non anglosassoni riusciamo a goderci le maree di suono della band di Tim DeLaughter senza preoccuparci troppo di cosa si porti dietro; noi ci facciamo investire, trascinare rapiti a riva con una certa paura di annegare nell'eccesso barocco degli arrangiamenti, nel numero spropositato dei membri e degli svariati strumenti che suonano. Pensiamo, poi, se il disco ci ha veramente toccato, ai testi. Almeno questo è quello che succede a me, che talvolta colgo qualche fetta di parole, talvolta mi abbandono e basta. Ecco, il punto di Pitchfork è che i Polyphonic siano buonisti, generici, hippie nel senso più deleterio e qualunquista possibile. Con il nuovo album siamo passati dai kaftani colorati alle divise, ma il quadro è la stesso, con l'aggravante di un difficile incorniciatura. La Danielson Famile è di ispirazione mormonica, gli Arcade Fire sono una enorme e discorde famiglia in lutto o qualcosa del genere, i Polyphonic cosa diavolo sono? Un'accolita di spostati? Degli Hare Krishna impazziti? Dei pagliacci in costume? Con The Fragile Army la poetica zuccherosa del collettivo prende una piega diversa, ed identica rispetto al passato. Il nucleo tematico è la guerra vissuta a partire dal Texas, epicentro della controversia statunitense, una guerra vista e sentita in maniera panteista e laica, comunitaria ed individuale. Il messaggio resta generico in superficie, perché è la forma dei Polyphonic, non la sostanza, a restare in qualche modo sovversiva. Essere tutto e niente, qualcosa di qualcos'altro ma nulla in assoluto, è questo a rendere la band in un certo senso unica ed irriducibile: una vera moltitudine.

09/09/2007 15:28
 
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